(Pubblicato su "ALTROVE" n°7, maggio 2000)
Il didjeridu
Frammenti di storia di un pennello sonoro

di Xodo Luca



Il governo australiano solo nel 1986 ha riconosciuto il “diritto alla terra ancestrale agli Aborigeni” e in occasione del bicentenario dell’Australia il gruppo musicale aborigeno Yothu Yindi che miscela il rock contemporaneo con i cicli di canzoni tradizionali dei gruppi Gumatij e Rirratjingu esordirono con il loro album “Homeland Movevement” al concerto del bicentenario di protesta tenuto a Sydney in difesa delle popolazioni native australiane. Il gruppo proveniente dai territori del nord dell’Australia celebra attraverso la propria musica il profondo legame spirituale che lo lega alla terra. La musica aborigena attraverso questo gruppo ha avuto un riconoscimento internazionale e propone l’emergenza di alcuni temi di particolare rilevanza per le popolazioni aborigene, la scomparsa di territori sacri in conseguenza dell’aumento dell’urbanizzazione, l’inquinamento e i cambiamenti climatici e geologici dovuti alla presenza massiva dell’uomo. Così recita Yunupingu ex preside della scuola di Yirrkala, ora cantante e leader degli Yothu Yindi : “Sin dall’antichità le popolazioni indigene del pianeta hanno vissuto in armonia con la terra, assicurando un ambiente stabile per le generazioni a venire. Dal secolo scorso molte cose di questa terra si sono perse. Madre Terra è stata danneggiata. Ci sono drammatici cambiamenti nel clima, i fiumi sono soffocati dalla presenza delle industrie, il cielo e carico d’inquinamento, la terra è stata spogliata e segnata irrimediabilmente”.

La popolazione aborigena è sicuramente tra le più antiche esistenti, il suo arrivo nel territorio australiano dall’Asia sud-orientale, è avvenuto in un periodo di glaciazioni pleistoceniche caratterizzati da una forte regressione delle acque. L’origine o il “ricordo dell’arrivo” per gli aborigeni è racchiuso nelle mitologie che trovano una loro collocazione in un contenitore definito il “tempo del sogno” che raccoglie i racconti sulla fondazione del mondo aborigeno. Il sogno o il tempo del sogno è un termine quasi intercambiabile nell’espressione Aborigena con il termine “La legge”. E’ identificabile con un’epoca al di fuori del tempo ordinario nella quale forme ancestrali hanno viaggiato e attraverso il canto e la parola hanno dato forma alla materia amorfa creando il mondo così come appare sia sotto il profilo fisico e psichico. Il potere dell’epoca del sogno è visibile nelle espressioni della natura dove le creature ancestrali tuttora vivono. Il potere di tali creature può essere evocato attraverso appropriate canzoni. La musica aborigena è legata al territorio, agli animali, alle piante, alle acque. Le canzoni possono rappresentare delle mappe geografiche e sono state indicate da esseri primordiali e gli autori sono totem ancestrali e non esseri umani. Sono un veicolo per approfondire la conoscenza religiosa la storia e le leggi e vengono tramandate con cura all’interno di un sistema di educazione musicale e il loro apprendimento è graduato in base all’età. Essere abili nel cantare appropriate parti del repertorio di canti è essenziale per ogni ragazzo in previsione di prendere il proprio posto nella società. Parte del repertorio è condiviso da tutti , mentre parte dei canti è strettamente segreta e protetta da particolari gruppi definiti in base al sesso, clan, o livello di anzianità. Per l’aborigeno è fondamentale nella propria vita ripercorrere le fasi della creazione e continuare a ripetere tale movimento. La conservazione del mondo e la sua continua creazione attraverso i riti e i canti permette di ritrovare la condizione originaria dove erano presenti gli esseri primordiali. Nella vita dell’aborigeno c’è bisogno di ripercorrere questo itinerario quando ad esempio giunge il momento dell’iniziazione dei giovani.

Il didjeridu lo strumento musicale che ormai è diventato un emblema degli aborigeni australiani sta vivendo un momento di forte espansione nella musica occidentale, sino a pochi decenni fa questo strumento era relegato all’attenzione di pochi etnomusicologi che si avventuravano nei territori a nord dell’Australia dove erano rimasti pochi musicisti che si dedicavano allo strumento. Grazie alla singolarità dei suoni, alle caratteristiche fisiche ed ai cicli pittorici ad esso collegato lo strumento ha avuto in questi ultimi decenni una diffusione inimmaginabile trovando una nuova dimensione nel paesaggio sonoro della musica occidentale. Il didjeridu è uno strumento caratteristico della musica degli Aborigeni Australiani è costituito solitamente da un tronco di un giovane eucalipto scavato naturalmente dalle termiti (white ants).La lunghezza media dello strumento è attorno ai 130 cm e la sua espansione conica si aggira attorno ai 4cm nella parte dell’imboccatura per arrivare ai 10 cm circa nella parte finale. Ovviamente queste sono misure indicative in quanto vi sono sensibili differenze tra i diversi tronchi usati a questo scopo. Vi sono altri tipi di didjeridu usati in riti particolari che possono arrivare ai 3.70 mt il cui diametro interno può arrivare ai 15/16 cm. Una volta tagliato il tronco viene tolta la corteccia e in qualche caso viene aggiunta della cera per ammorbidire l’appoggio delle labbra sull’imboccatura, oltre a queste modifiche non viene effettuata nessun altra modificazione fisica sull’oggetto. Lo strumento è spesso decorato con colori naturali e i materiali adoperati - ocra rossa o gialla, argilla bianca o polvere di carbone - sono gli stessi usati per dipingere il corpo o altri utensili. Tra le figure mitologiche collegate al “Tempo del sogno” sono presenti i Wondjina, dai corpi allungati, con volti senza bocca e cerchiati di rosso. Altre figure filiformi sono gli spiriti Mimi colorate in rosso la cui origine è sconosciuta. Nello strumento vengono rappresentati stili pittorici di recente formazione come nel caso della pittura spot degli aborigeni del deserto centrale oppure animali rappresentati con particolari dello scheletro e degli organi interni nel tipico stile a “raggi x” sviluppatosi nelle Terre di Arnhem.

Il termine didjeridu non è aborigeno ma deriva da una definizione approssimativa data nel secolo scorso dai primi osservatori occidentali di questo strumento. In origine lo strumento aveva nomi diversi forniti da ogni gruppo linguistico aborigeno. Nei territori del nord in Arnhem Land presso le popolazioni Yolngu lo strumento si chiama Yiraki (o Yidaki ) che significa “gola dell’emu”. In Groote Eylandt la parola per didjeridu è Yiraga che significa “gola”. In altri gruppi linguistici presso Nunggubuyu lo strumento viene definito con la parola Ihambilgbilg dove la sillaba Iham rappresenta la lingua. Vi sono altri nomi complessi dedicati allo strumento la cui traduzione non è conosciuta. La parola esoterica per definire lo strumento usato nelle cerimonie mortuarie Djalambu presso il gruppo Yiritia è Djalupi. Nella musica tradizionale aborigena lo strumento è suonato da un uomo ed accompagna il canto e la danza ed è usato primariamente anche se non in modo esclusivo in cerimonie pubbliche, nelle canzoni dei diversi clan nelle quali si esprime l’affiliazione ad un lignaggio o ad un territorio, oppure nelle canzoni d’intrattenimento effettuate negli insediamenti per i giovani iniziati denominate djatpangarri. In aggiunta alla voce e al didjeridu vengono usati come percussioni dei bastoncini percossi l’uno contro l’altro o in sostituzione a questi dei boomerang. Lo strumento produce note attraverso due principali sorgenti. La prima è data dalle labbra che messe in vibrazione dalla colonna d’aria prodotta danno luogo alla nota fondamentale o ad una serie di armonici quando aumenta la pressione d’aria o vengono messe in tensione le labbra. La seconda è data dall’uso delle corde vocali, in questo caso lo strumento amplifica delle sillabe o parole intere che vengono pronunciate sovrapponendosi alla produzione della nota fondamentale. Il problema della continuità di suono è risolto attraverso la tecnica della respirazione circolare. Gli aborigeni hanno perfezionato questa tecnica dove frequenti piccole inspirazioni vengono effettuate attraverso il naso e simultaneamente una quota d’aria immagazzinata nelle guance opportunamente messa in pressione serve per produrre la nota fondamentale o gli armonici attraverso le labbra. Attraverso queste due tecniche di base per produrre i suoni possono essere effettuate molte variazioni nella produzione del suono spostando la lingua verso i denti oppure retroflettendo la lingua nella parte posteriore della bocca. I suonatori di didjeridu aborigeni hanno sviluppato un preciso e inusuale sistema di controllo attraverso le guance, le labbra e la lingua e la respirazione per produrre un notevole numero di effetti . Il risultato di due distinte vibrazioni prodotte dalle labbra e dal canto simultaneamente nello strumento crea una combinazione particolare. La voce può essere usata in falsetto oppure con il registro normale variando in qualità e dinamica, da un quasi silenzioso e basso mormorio sino a ad urla stridule. Il suonatore di dijeridu può così essere considerato anche un cantante di didjeridu e la tecnica vocale è inserita in un straordinario patrimonio tecnico appena elencato. L’analisi delle variazioni sonore è inseparabile dalle funzioni ritmiche e l’articolazione di modelli ritmici avviene principalmente attraverso accenti dinamici , l’uso della voce e della lingua. In aggiunta gli armonici prodotti attraverso una maggior pressione esercitata nella colonna d’aria che mette in vibrazione le labbra possono essere usati alternativamente alla nota fondamentale, producendo una “melodia” ritmica di due note.

Nella cultura aborigena le possibilità di sviluppo dei suoni ha una collocazione ben precisa nella riproduzione di suoni appartenenti all’ambiente australiano oppure nella narrazione di racconti a carattere mitologico. Una speciale applicazione della tecnica vocale si ritrova quando sopra la nota fondamentale viene riprodotto il richiamo di particolari uccelli. Nei brani dedicati alla gru australiana, per esempio, il suonatore canta dentro lo strumento in falsetto note approssimativamente tre ottave sopra la nota fondamentale, producendo un rauco suono appropriato all’uccello dedicato e riservato solo a tale imitazione. Altre canzoni dedicate al piccione impiegano tecniche diverse nelle quali il suonatore emette una serie di corti suoni in falsetto pronunciando la parola ”chirps” a brevi intervalli alternati alla produzione della nota fondamentale, in questo caso la produzione di diverse note avviene in modo separato e distinto per dar luogo ad una diversa stringa sonora. E’ interessante notare che in diverse parti del mondo sono presenti molti strumenti che si avvicinano alle modalità di suono che il didjeridu presenta. Nel nord dell’Australia il bamboo, presente in una piccola area del Nord dell’Australia è usato come didjeridu .Questo materiale viene usato con modalità simili al didjeridu durante una festività primaverile ad Haiti denominata “ Los Rara” o “Gagà” nella Repubblica Dominicana. Lo strumento chiamato “Vaccines” misura dai 40 ai 130 cm sono suonati in gruppi il cui numero varia da 4 a 6 persone ed ogni suonatore percuote ritmicamente con un bastoncino un lato dello strumento .L’insieme formato dai suonatori sviluppa una melodia composita ed un ritmo complesso causato dai differenti punti d’entrata di ogni suonatore, inoltre, le note di diversa altezza danno vita a particolari accordi di breve durata. In Africa si trovano molti esempi che riportano a queste modalità di produzione sonora. Presso la popolazione Goun nell’ex Dahomey si celebra la cerimonia dei cacciatori notturni detta “Zangbeto” nella quale vi sono due partecipanti che dialogano parlando e suonando in due corni di mucca producendo distorte risonanze. In Australia presso gli aborigeni come in altri paesi del mondo è sempre presente la necessità di creare forme alternative alla comunicazione linguistiche. Segni presenti sul corpo durante le cerimonie ( pitture, decorazioni, tatuaggi) oppure foglie poste in modo particolare sul terreno, sassi posti in una particolare sequenza, ma soprattutto i suoni degli strumenti musicali possono essere considerati come forme equivalenti al linguaggio. Come abbiamo appena visto il didjeridu è uno strumento nel quale vengono pronunciate sillabe o parole intere quando viene prodotta la nota fondamentale. Nelle sue forme d’uso più complesse il suonatore di didjeridu attraverso una ritmizzazione complessa imita voci umane e di animali costruendo attraverso il suono vere e proprie conversazioni . Le parole “bush” e “outback”, nella terminologia australiana, descrivono una vasta gamma di ambienti non urbani, naturali o semi-naturali, che iniziano a volte a breve distanza dalle aree sub-urbane. Il “bush” comprende giungle tropicali, pianure semi-desertiche, aree semi aride. Le popolazioni aborigene hanno acquisito nel corso dei millenni un rapporto sacro con la terra attraverso una trasformazione creativa a carattere mitologico. Gli aborigeni si sono legati ad un complesso rapporto con il loro ambiente attraverso una narrazione del paesaggio e della natura, che si esprime nei riti nei canti e nelle danze. Il sacro si poteva ritrovare non solo nelle cerimonie, che diventavano una matrice di affinità per ogni generazione, ma anche nelle semplici pratiche necessarie alla sopravvivenza. Il didjeridu rappresenta per gli aborigeni una specie di “pennello sonoro” che disegna un paesaggio vivente o meno mantenendo inalterate le collocazioni mistiche attribuite dalla cultura. Nel panorama sonoro aborigeno strumenti come il didjeridu e il rombo, una tavoletta incisa con disegni geometrici che legata ad una funicella e fatta roteare sul proprio asse produce un basso ronzio, sono oggetti che hanno la funzione di significare. A differenza delle cose, questi oggetti portatori di significato, hanno la prerogativa di mettere in comunicazione l’udibile con il non udibile oppure eventi o creature lontani nello spazio o nel tempo se non addirittura con esseri posti al dì fuori di queste dimensioni, morti antenati, divinità. Nelle cerimonie l’attività sonora ha la funzione di unire mondi in qualche modo separati. Come per il didjeridu che, come abbiamo visto, nei nomi d’origine è connesso alla gola sia nell’uomo che nell’animale, anche il rombo rappresenta nella cultura aborigena singoli o molteplici aspetti della fonazione. Vi sono testimonianze che precisano il ruolo di “voce” del rombo sonoro : “..e quando l’uomo istituì le leggi che vengono trasmesse di padre in figlio e riti dell’iniziazione, fabbricò il rombo, il cui suono rappresenta la sua voce.” ( Eliade M. pag 21). Il destino dei suoni del didjeridu e del rombo s’incrociano in alcune manifestazioni della cultura aborigena, essi assumono una chiara espressione evocatrice nello svolgimento di pratiche a carattere sacro. I riti assolvono la funzione di illustrare il mito ed il -discorso- connesso al mito. All’interno di questi contenitori vi sono spesso animali mitologici che danno forma al racconto. Il carattere mediatore dell’animale è trasversale a molte culture. Gli animali in Australia costituiscono un elemento importante nel simbolismo sacrificale all’interno di molti culti. Il serpente è un elemento che si ritrova in molte culture ed è veicolo del germe attivo che avrebbe ricevuto all’origine dei tempi. Il suo simbolismo è in correlazione con quelli dell’acqua, dell’arcobaleno, dell’origine. In Africa, come in Australia per la leggenda del serpente Yurlunggur, ha un ruolo importante fra gli animali simbolici. Per i Venda, il pitone che, vomitando, diede luogo alla creazione di tutte le creature che aveva nel ventre, è il simbolo del creatore. A questo titolo interviene in numerose cerimonie rituali e religiose, specialmente nell’iniziazione femminile, in cui le giovani iniziate mimano i suoi movimenti danzando e ricordando così le circonvoluzioni originali. I Baluba lo considerano partecipe della natura divina, in quanto fu padrone delle creature prima dell’uomo. E’ generatore della pioggia e detentore della fertilità. Per i Basongye e i Baluba il pitone sorge dalle acque sotto forma di arcobaleno per proteggere il mondo dalla vendetta divina in occasione dei fulmini. Il pitone in queste culture ispira un atteggiamento religioso, poiché rappresenta il legame fra le divinità del cielo e quelle dell’acqua, legame che manifesta attraverso la sua natura di arcobaleno.

Il racconto delle sorelle Wawilak e Yurlunggur e diffuso nelle zone settentrionali dell’Australia e diventa il tessuto narrativo di alcuni riti d’importanza vitale per i clan aborigeni. Vi sono molte varianti tra i diversi gruppi aborigeni che modificano le azioni dei principali protagonisti, anche se nel carattere sostanziale il significato del racconto rimane pressochè intatto. I riti agganciati a questo episodio possono variare nei nomi, in alcune regioni il racconto è conosciuto con il titolo “La vergogna del serpente arcobaleno” in altre aree “ La storia delle due sorelle”. Nella parte nord orientale della terra di Arnhem, e diffusa la versione che presenteremo, Nel 1952 W.Lloyd Warner osservò alcuni riti dove il racconto trova una collocazione ben precisa il Djunggan, rito primario della circoncisione, il Kunapipi, il rito della fecondità, e l’Ulmark un rito che appartiene agli iniziati più anziani. Nella parte successiva sarà illustrato brevemente il Djunggan il rito della circoncisione dove il didjeridu trova un ruolo fondamentale sia sotto il profilo musicale e simbolico.

Le sorelle Wawilak e Yurlunggur il serpente arcobaleno

C’era una volta all’estremo sud del paese dei Wawilak due sorelle che ebbero relazioni incestuose con uomini del loro stesso sangue. La sorella maggiore aveva avuto un maschio e la minore era incinta. Partirono da casa e si diressero al nord. Lungo il cammino la sorella minore diede alla luce un maschietto. Durante il cammino raccolsero molti tipi di cibi vegetali e uccisero molte specie animali. Cariche di cibi giunsero ad un pozzo e decisero di far sosta. Sul fondo del pozzo viveva il serpente arcobaleno Yurlunggur. La sorella maggiore accese un fuoco ed entrambe cominciarono a cuocere i vegetali e gli animali commestibili che avevano raccolto, ma tutti balzarono fuori dal fuoco, saltarono nella pozza e scomparvero. Esse erano le specie totemiche dei clan attuali. La sorella maggiore andò a raccogliere alcuni pezzi di corteccia per costruire un giaciglio al nipotino, e nella sua ricerca guadò un tratto poco profondo della pozza dove giaceva il serpente. Aveva le mestruazioni e il sangue gocciolò nell’acqua e andò a fondo, fin dove giaceva Yurlunggur. Il serpente si mosse nel fondo del pozzo sibilò. All’orizzonte apparvero delle nubi e dopo poco iniziarono le prime gocce. Il livello dello stagno aumentò. Le due sorelle cantarono canzoni rituali e danzarono le danze sacre per impedire che lo stagno potesse straripare e permettere così al serpente di raggiungerle e ingoiarle. Le due sorelle e i bambini stanchi per il viaggio e le danze piombarono in un sonno profondo, Yurlunngur uscì dal pozzo morse i loro nasi e li fece sanguinare, poi in un sol boccone li ingoiò. Il serpente arcobaleno sollevò la testa fino al cielo, e le acque del pozzo s’innalzarono con lui. Altri serpenti quando sentirono Yurlunnggur si alzarono. Erano tutti diversi tra loro. Ancora ritti sulle loro code, i serpenti si chiesero l’un l’altro che cosa avessero mangiato l’ultima volta. Ciascuno di loro nominò alcune specie totemiche. Yurlunggur fu interrogato per ultimo e per vergogna, si rifiutò di rispondere. Ma alla fine gli altri riuscirono a farglielo dire. In quel momento iniziò a soffiare un grande vento e Yurlunggur cadde. La sua caduta creò il terreno per le danze in quella parte degli attuali terreni cerimoniali dove da allora sono celebrati i sacri riti del Djunggan. Quando si ritrovò a terra vomitò le sue quattro vittime sopra un grande formicaio e si trascinò sino alla pozza rimanendo con la testa sulla superficie dell’acqua. Il vento soffiava forte e incanalandosi dentro alcuni tronchi cavi produceva dei suoni profondi, uno di questi tronchi, si alzò emettendo alcune note basse sopra i corpi delle due donne e dei bambini.. Poco dopo le formiche uscirono dal sottosuolo e morsero i piedi dei bambini e delle donne che in pochi istanti si rianimarono. Yurlunggur uscì ancora una volta dal pozzo e colpì le teste delle sue quattro vittime fino a farle sanguinare. Poi ingoiò tutti di nuovo. Il serpente arcobaleno cadde un’altra volta, e nel cadere creò la parte dei terreni di danza dove si tengono le cerimonie sacre, quelle di Ulmark e di Kunapipi. Poi scivolò di nuovo nel suo stagno e attraverso canali sotterranei nuotò fino al paese dei Wawilak, dove tornò in superficie e sputò fuori le due sorelle. Esse si trasformarono in due enormi rocce, e ancor oggi è possibile vederle. Il serpente si tenne i bambini e tornò a nuoto nel suo paese, dove li lasciò andare. Essi furono i capostipiti del popolo degli Yiritia. Mentre al nord avveniva tutto ciò due uomini Wawilak udirono la voce del serpente. Si misero a seguire le orme delle due donne e alla fine giunsero dove Yurlunggur le aveva colpite al capo e trovarono il sangue lasciato dalle donne. Lo raccolsero in due ceste di corteccia, fecero un didjeridu con il palo principale della capanna delle sorelle, e si addormentarono. Durante la notte, gli spiriti delle sorelle li visitarono in sogno e insegnarono loro tutte le canzoni sacre e tutti i rituali, e poi se ne andarono. Alla mattina gli uomini si svegliarono e cantarono e danzarono tutte le canzoni e riti dell’intero ciclo, così come sono sempre stati eseguiti da allora.

Il Djunggan

Il rito del Djunggan aveva due principali funzioni: quella di circoncidere i ragazzi più giovani e quella di far avanzare i ragazzi più anziani della classe precedente di un altro passo verso la piena virilità. Il suo simbolo principale è un didjeridu che rappresenta yurlunggur, e la cerimonia si apre con alcuni vecchi che vanno in cerca di un alberello dal tronco scavato dalle termiti. Quando l’hanno trovato viene scortecciato e battono contro per provare la sua risonanza, in uno spiazzo dell’accampamento degli uomini. Quando i ragazzi odono il suono del didjeridu, il loro padre gli dice “Il grande padre serpente sente l’odore del vostro prepuzio e lo chiede”. Spaventati i ragazzi si aggrappano alle donne, che fingono di lottare con gli uomini per impedire al serpente d’ingoiare i fanciulli. Durante il rito, l’officiante chiama la lingua di Yurlunggur. Tutti i ragazzi che devono essere circoncisi hanno il capo coperto con le stuoie delle donne. Quattro o cinque uomini che sono usciti di soppiatto dal recinto rituale suonano il didjeridu da lontano. In un secondo tempo il didjeridu viene portato davanti ai ragazzi che vedono per la prima volta lo strumento sacro. In una fase successiva del rito, definibile grossolanamente, come quella del salasso, gli anziani dipingono il didjeridu di ocra a simboleggiare il sangue e la presenza nello strumento di Yurlunggur. Il giorno prima della circoncisione, gli anziani donano il sangue che sarà usato come sostanza adesiva per i loro costumi. La prima volta che un uomo offre il sangue viene suonato il didjeridu su di lui. La parte finale del didjeridu è tenuta contro il corpo del donatore mentre il sangue gli fluisce dal braccio e gli altri uomini cantano canzoni i cui temi sono essenzialmente dedicati al sangue e al serpente. Il sangue offerto per la prima volta da un uomo è considerato il sangue proveniente dalla testa della sorella maggiore Wawilak. Il didjeridu, quando viene tenuto contro il corpo dell’uomo è il serpente che ingoia quella sorella. Le canzoni cantate durante ogni primo salasso rievocano l’intero episodio dei morsi e dell’ingestione. Quando gli uomini allontanano i ragazzi dalle donne, gli uomini rappresentano il serpente. Il rito comprende altre pratiche e quando questo è finito vengono offerti doni al cerimoniere che li divide con altri anziani del gruppo. Alla fine, i custodi del didjeridu la seppelliscono segretamente nel fango con il favore delle tenebre. Quando verrà il momento della cerimonia successiva lo riporteranno alla luce, e se sarà in buone condizioni se ne serviranno di nuovo, dopo averlo ridipinto; altrimenti ne faranno uno nuovo. In questa lunga successione di riti, qui descritti solo parzialmente e in modo frammentario, tutti i movimenti del mito Wawilak sono cantati e recitati, e giungono all’acme con il versamento di sangue degli uomini pienamente iniziati. Questo sacrificio individuale e collettivo rievoca simbolicamente l’episodio in cui le sorelle e i loro figli furono morsicati e ingoiati.

Sino a pochi decenni orsono il patrimonio culturale dello strumento si muoveva attraverso coordinate narrative che erano completamente immerse nella tradizione, da pochi anni a questa parte il didjeridu ha completamente cambiato il suo ruolo diventando un ambasciatore della vita aborigena nel mondo. Bruno Nettl sottolinea come il “didjeridu sia diventato sempre più noto e usato nello stesso momento in cui gli aborigeni australiani e la loro cultura sono stati sempre più assorbiti nella cultura dominante”. Il contatto con la musica occidentale ha dato luogo ad una considerevole discografia dove il didjeridu trova spazio nei diversi generi musicali. La produzione musicale non si ferma solo al territorio australiano dove sono presenti gruppi rock di fama internazionale come i Goodwanaland, o i Yothu Yindi, ma si estende all’Europa e all’America dove il dijeridu trova un campo di espressione che dialoga con tecniche d’esecuzione contemporanee e tradizionali in una dimensione dove passato e presente si rispecchiano continuamente.

Bibliografia

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